Questa settimana tratto
dell’altro romanzo da me letto: Quaderni
di Serafino Gubbio Operatore, opera del premio Nobel per la letteratura nel
1934 Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936).
Inizialmente
pubblicato nel 1916 col titolo Si gira...
e successivamente riveduto col nuovo titolo nel 1925, affronta direttamente i temi della macchina e
dell'età contemporanea.
Il romanzo narra la
vicenda di Serafino, un cineoperatore della casa cinematografica Kosmograph che
quotidianamente annota in un diario tutti gli avvenimenti che riguardano quelli
che lavorano nel suo ambiente e soprattutto la storia di un'attrice russa,
Varia Nestoroff. Inizialmente il protagonista viene ospitato in un ospizio di
mendicità a Roma che il suo amico Simone Pau chiama albergo. In questo ospizio
conosce un violinista che si è ridotto ad accompagnare un pianoforte automatico
e che infine non suona neanche più ma beve solo. Serafino si sente totalmente
alienato dal suo lavoro tant'è che poi afferma: "Finii d'esser Gubbio e
diventai una mano". Nella scena finale del romanzo Serafino riprende
meccanicamente con la sua cinepresa una scena terribile: Aldo Nuti sta girando
una scena in cui deve uccidere una tigre; tuttavia, invece di rivolgere l'arma
verso l'animale, egli uccide la Nestoroff. Rimane però ucciso a sua volta,
sbranato dalla stessa tigre. Serafino, che sta filmando la scena, diviene muto
per lo shock e rinuncia ad ogni forma di sentimento e di comunicazione.
Come per il precedente romanzo riporto i passi della vicenda che ho trovato più significativi.
Serafino
Gubbio, le macchine e la modernità
I
(…)
13
Conosco anch'io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che
fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e
così; questo e quest'altro da fare; correre qua, con l'orologio alla mano, per
essere in tempo là. - No, caro, grazie: non posso! - Ah sì, davvero? Beato te!
Debbo scappare... - Alle undici, la colazione. - Il giornale, la borsa,
l'ufficio, la scuola... - Bel tempo, peccato! Ma gli affari... - Chi passa? Ah,
un carro funebre... Un saluto, di corsa, a chi se n'è andato. - La bottega, la
fabbrica, il tribunale...
Nessuno
ha tempo o modo d'arrestarsi un momento a considerare, se quel che vede fare
agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopra tutto gli
convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente
potrebbe trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta
vertigine è gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non
ci è più possibile raccoglierci un minuto a pensare. Con una mano ci teniamo la
testa, con l'altra facciamo un gesto da ubriachi.
-
Svaghiamoci!
(…)
36
Qua da noi non siamo ancora arrivati ad assistere allo spettacolo, che dicono
frequente in America, di uomini che a mezzo d'una qualche faccenda, fra il
tumulto della vita, traboccano giù, fulminati. Ma forse, Dio ajutando, ci
arriveremo presto. So che tante cose si preparano. Ah, si lavora! E io -
modestamente - sono uno degli impiegati a questi lavori per lo svago.
Sono
operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo io cui vivo e di cui vivo,
non vuol mica dire operare.
Io
non opero nulla.
Ecco
qua. Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta. Uno o due
apparatori, secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o su la
piattaforma con una lunga pertica e un lapis turchino i limiti entro i quali
gli attori debbono muoversi per tenere in fuoco la scena.
Questo
si chiama segnare il campo.
(…)
II
81
Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia
professionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti,
condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella.
(…)
114
Che cos'è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è
passata.
C'è
una molestia, però, che non passa. La sentite? Un calabrone che ronza sempre,
cupo, fosco, brusco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzìo dei pali
telegrafici? lo striscìo continuo della carrùcola lungo il filo dei tram
elettrici? il fremito incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello del
motore dell'automobile? quello dell'apparecchio cinematografico?
Il
bàttito del cuore non s'avverte, non s'avverte il pulsar delle arterie. Guaj,
se s'avvertisse! Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice che
non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire
d'immagini; ma che c'è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo
precipitosamente.
Si
spezzerà?
Ah,
non bisogna fissarci l'udito. Darebbe una smania di punto in punto crescente,
un'esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire.
In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramenìo
vertiginoso, che investe e travolge, bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo
per attimo, questo rapido passaggio d'aspetti e di casi, e via, fino al punto
che il ronzìo per ciascuno di noi non cesserà.
L’
“uomo del violino”
–
Serafino, – disse, – ti presento un grande artista. Gli hanno appiccicato un
nomignolo schifoso;
ma
non importa: è un grande artista. Ammiralo: qua, col suo
Dio sotto il braccio!
Potrebbe
essere una scopa: è un violino.
Mi
voltai a osservar l’effetto delle parole di Simone Pau sul viso dello
sconosciuto. Impassibile. E
Simone
Pau seguitò:
–
Un violino, per davvero. E non lo lascia mai. Anche i custodi qua gli concedono
di portarselo a
letto,
a patto che non suoni di notte e non disturbi gli altri ricoverati. Ma non c’è
pericolo. Càvalo fuori, amico mio, e mostralo a questo signore, che ti saprà
compatire.
Quegli
mi spiò prima con diffidenza; poi, a un nuovo invito di Simone Pau, trasse
dalla custodia
il
vecchio violino, un violino veramente prezioso, e lo mostrò, come un monco
vergognoso può mostrare il suo moncherino.
Simone
Pau riprese, rivolto a me:
–
Vedi? Te lo mostra. Grande concessione, di cui devi ringraziarlo! Suo padre,
molti anni or sono,
lo
lasciò padrone a Perugia di una tipografia ricca di macchine e di caratteri e
bene avviata. Di’ tu,
amico
mio, che ne facesti, per consacrarti al culto del tuo Dio?
L’uomo
rimase a guardare Simone Pau, come se non avesse compreso la domanda.
Simone
Pau gliela chiarì:
–
Che ne facesti, della tua tipografia?
Quegli
allora scattò in un gesto di noncuranza sdegnosa.
–
La trascurò, – disse, per spiegare quel gesto, Simone Pau. – La trascurò fino
al punto di ridursi al lastrico. E allora, col suo violino sotto il braccio, se
ne venne a Roma. Ora non suona più da un pezzo, perché crede di non poter più
sonare, dopo quanto gli è accaduto. Ma fino a qualche tempo fa, sonava nelle
osterie. Nelle osterie si beve; e lui prima sonava, poi beveva. Sonava
divinamente; più divinamente sonava, e più beveva; così che spesso era
costretto a mettere in pegno il suo Dio, il suo violino. E allora si presentava
in qualche tipografia per trovar lavoro: metteva insieme a poco a poco quel
tanto
che gli bisognava per spegnare il violino, e ritornava a sonare nelle osterie.
Ma senti che cosa
gli
capitò una volta, per cui… capisci? gli si è un po’ alterata la… la… non
diciamo ragione, per carità, diciamo concezione della vita. Insacca, insacca,
amico mio, il tuo strumento: so che ti fa male, se io lo dico, mentre tu hai il
tuo violino scoperto.
L’uomo
accennò più volte di sì, gravemente, col capo arruffato, e rinfoderò il
violino.
–
Gli capitò questo, – seguitò Simone Pau. – Si presenta in una grande officina
tipografica, nella quale è proto uno che, da ragazzotto, lavorava nella sua
tipografia a Perugia. «Non c’è posto; mi
dispiace»,
gli dice costui. E l’amico mio fa per andarsene, avvilito, quando si sente
richiamare. «Aspetta», dice. «Se ti adatti, ci sarebbe da fare un servizio… Non
sarebbe per te; ma, se tu hai bisogno…».
Il
mio amico si stringe nelle spalle, e segue il proto. È introdotto in un reparto
speciale, silenzioso;
e
lì il proto gli mostra una macchina nuova: un pachiderma piatto, nero, basso;
una bestiaccia mostruosa, che mangia piombo e caca libri. È una monotype
perfezionata, senza complicazioni d’assi, di ruote, di pulegge, senza il ballo
strepitoso della matrice. Ti dico una vera bestia, un pachiderma, che si rùguma
quieto quieto il suo lungo nastro di carta traforata. «Fa tutto da sé» dice il
proto al mio amico. «Tu non hai che a darle da mangiare di tanto in tanto i
suoi pani di piombo, e starla a guardare». Il mio amico si
sente cascare il fiato e le braccia. Ridursi a un tale ufficio, un uomo, un
artista! Peggio d’un mozzo di stalla… Stare a guardia di quella bestiaccia
nera, che fa tutto da sé, e che non vuol da lui altro servizio, che d’aver
messo in bocca, di tanto in tanto, il suo cibo, quei pani di piombo! Ma questo
è niente, Serafino! Avvilito, mortificato, oppresso di vergogna e avvelenato di
bile, il mio amico dura una settimana in quella servitù indegna e, porgendo
alla bestia quei pani di piombo, sogna la sua liberazione, il suo violino, la
sua arte; giura e promette di non ritornare più a sonare nelle osterie, dov’è
forte, veramente forte per lui la tentazione di bere, e vuol trovare altri
luoghi più degni per l’esercizio della sua arte, per il culto della sua
divinità. Sissignori! Appena spegnato il violino, legge negli avvisi d’un
giornale, tra le offerte d’impiego, quella d’un cinematografo, in via tale,
numero tale, che ha bisogno d’un violino e d’un clarinetto per la sua orchestrina
esterna. Subito il mio amico accorre; si presenta, felice, esultante, col suo
violino sotto il braccio. Ebbene: si trova davanti un’altra macchina, un
pianoforte automatico, un cosiddetto piano-melodico. Gli dicono: «Tu col tuo
violino devi accompagnare quello strumento lì!». Capisci! Un violino, nelle
mani d’un uomo, accompagnare un rotolo di carta traforata introdotto nella
pancia di quell’altra macchina lì! L’anima, che muove e guida le mani di quest’uomo,
e che or s’abbandona nelle cavate dell’archetto, or freme nelle dita che
premono le corde, costretta a seguire il registro di quello strumento
automatico! Il mio amico diede in tali escandescenze, che dovettero accorrere le
guardie, e fu tratto in arresto e condannato per oltraggio alla forza pubblica
a quindici giorni di carcere.
Ne
è uscito, come lo vedi.
Beve, e non suona più.
Il
« silenzio di cosa » di Serafino Gubbio
Io
mi salvo, io solo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m’ha reso così –
come il tempo vuole – perfetto. Non vuole intenderlo il mio amico Simone Pau,
che sempre più s’ostina ad annegarsi nel superfluo, inquilino perpetuo d’un
ospizio di mendicità. Io ho già conquistato l’agiatezza con la retribuzione che
la Casa m’ha dato per il servizio che le ho reso, e sarò ricco domani con le
percentuali che mi sono state assegnate sui noli del film mostruoso. È vero che
non saprò che farmi di questa ricchezza; ma non lo darò a vedere a nessuno;
meno che a tutti, a Simone Pau che viene ogni giorno a scrollarmi, a
ingiuriarmi per smuovermi da questo mio silenzio di cosa, ormai assoluto, che
lo rende furente. Vorrebbe ch’io ne piangessi, ch’io almeno con gli occhi me ne
mostrassi afflitto o adirato; che gli facessi capire per segni che sono con
lui, che credo anch’io che la vita è là, in quel suo superfluo. Non batto
ciglio; resto a guardarlo rigido, immobile, e lo faccio scappar via su
le furie. Il povero Cavalena da un altro canto studia per me trattati di
patologia nervosa, mi propone punture e scosse elettriche, mi sta attorno per
persuadermi a un’operazione chirurgica sulle corde vocali; e la signorina
Luisetta, pentita, addolorata per la mia sciagura, nella quale vuol sentire per
forza un sapor d’eroismo, timidamente mi dà ora a vedere che avrebbe caro
m’uscisse, se non più dalle labbra, almeno dal cuore un sì per lei.
No,
grazie. Grazie a tutti. Ora basta. Voglio restare così. Il tempo è questo; la
vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così –
solo, muto e impassibile – a far l’operatore.
La
scena è pronta?
– Attenti, si gira...