domenica 16 giugno 2013

Conclusione del Blog

Nato come blog parallelo al corso di Storia della Tecnologia del prof. Vittorio Marchis presso il Politecnico di Torino, technologyandprogress.blogspot.it giunge ora alla sua conclusione.
Quando il professore chiese di scegliere un tema da affiancare a quello della “tecnologia”, la mia preferenza cadde subito su quello del “pregresso”. Come già anticipai nell’introduzione al medesimo blog, sono convinto che il tema del “progresso” sia un tema cardine della società moderna e uno dei pochissimi che riguardi sensibilmente ognuno di noi. Tutti noi, infatti, siamo pesantemente condizionati da esso e talvolta anche trascinati.
Ho deciso di studiare l’argomento dal punto di vista scientifico, artistico, culturale e storico, approfondendo in particolar modo il primo ‘900.
Il mio percorso è iniziato dall’analisi del Positivismo, movimento filosofico che pose il progresso come fine ultimo delle sue ricerche. Esso condizionò fortemente i primi anni del XX secolo, la cosiddetta Belle Epoque che grazie alla sue innumerevoli scoperte portò alla convinzione diffusa che i benefici del progresso sarebbero stati illimitati.
Spostandoci sul campo letterario, ho preso in analisi due romanzi: Quaderni di Serafino Gubbio Operatore in lingua italiana di Luigi Pirandello e Brave New World in lingua inglese di Aldous Huxley. Fin dall’inizio la mia intenzione era non di trarre dai libri letti un semplice spunto per il blog, ma di farli emergere come voci che hanno ferocemente criticato il progresso e condannato i suoi effetti sulla società.
In ultima istanza ho proposto come argomento che, in modo del tutto opposto, ha fondato la sua ideologia sull’esaltazione, talvolta scaduta in fanatismo, del progresso, il movimento artistico del Futurismo.


Per una navigazione più veloce all’interno del blog si rimanda al relativo indice

venerdì 7 giugno 2013

Indice del Blog

Presentazione

Mappa concettuale

Le "lingue" del progresso

Il Positivismo

Il Progresso in simboli

La belle epoque

Le grandi scoperte di inizio '900

Brave New World

Quaderni di Serafino Gubbio operatore

Il Futurismo

Galleria futurista

Marinetti - Zang Tumb Tumb




Marinetti - Zang Tumb Tumb

In questo video viene recitata una parte dell'opera "Zang Tumb Tumb" del fondatore del Futurismo Filippo Tommassi Marinetti.
Evidente è l'esaltazione della guerra (come anticipato già nel manifesto futurista)  e l'uso di parole onomatopeiche volta a rendere più viva e concitata la narrazione.

                                        http://www.youtube.com/watch?v=u1Yld7wGWEI

mercoledì 5 giugno 2013

Galleria Futurista

Umberto Boccioni - Forme uniche della continuità nello spazio




Umberto Boccioni - La città che sale




Giacomo Balla - La mano del violinista




Giacomo Balla - Bambina che corre sul balcone




Carlo Carrà - Funerali dell'anarchico Galli




Antonio Sant'Elia - Centrale Elettrica

Il Futurismo

Analizziamo ora la voce di un movimento, che al contrario delle due precedenti, fece dell’esaltazione del progresso la sua base portante, ovvero il futurismo.

Il futurismo è il movimento d'avanguardia più importante di inizio secolo. Si basa sul rifiuto di tutte le forme artistiche tradizionali; cerca un linguaggio adeguato alla nuova civiltà delle macchine e basato sul vitalismo dell'epoca moderna. Il futurismo coinvolge tutte le forme artistiche dando origine a veri e propri capolavori nell'ambito delle arti plastiche e visive. Volle essere soprattutto un nuovo costume rivoluzionario di vita individuale e collettiva; per questo si diffuse in vari modi in tutta Europa e finì per anticipare l'ideologia fascista.

Alla base del futurismo fu l'intuizione che la cultura del Novecento non avrebbe potuto non tener conto dei poderosi processi di trasformazione socio-economica in atto: la rapida industrializzazione, la nuova struttura e la nuova funzione delle città, il trionfo della velocità, protagonista dei mezzi di comunicazione (come la radio) e dei mezzi di trasporto (l'automobile, l'aereo e in generale quelli mossi dal motore a scoppio), infine la stessa violenza distruttiva delle nuove armi. Ai futuristi risultò inadeguata la vecchia concezione della cultura come riflessione e comprensione razionale della realtà; così le contrapposero l'idea di una cultura incentrata sul bisogno di agire e su un progetto artistico capace di rappresentare il dinamismo.
L'elaborazione teorica fu affidata ai cosiddetti "manifesti". Il primo Manifesto del futurismo fu pubblicato il 20 febbraio 1909 da F.T. Marinetti, sulle pagine del quotidiano "Le Figaro" di Parigi e richiamava l'atto di fondazione di un movimento politico: i futuristi aspiravano a modificare radicalmente la società. Il futurismo, dunque, si pose in un'ottica dichiaratamente antiborghese: fu contro il perbenismo, ogni forma di tradizione, il parlamentarismo e la democrazia; sostenne invece la positività assoluta del gesto ribelle e libertario, dell'eroismo fine a se stesso, del disprezzo dei sentimenti, della guerra come "sola igiene del mondo". Tra i vari successivi manifesti che ribadivano e ampliavano l'intento provocatorio del primo, il più interessante per l'elaborazione culturale e le conseguenze fu il Manifesto tecnico della letteratura futurista (1912), che propose la distruzione di tutti i nessi sintattici per lasciare le "parole in libertà" e realizzare l'espressione dell'"immaginazione senza fili", fondata su un uso estremo dell'analogia e dell'onomatopea per restituire sulla pagina l'effetto bruto e immediato del rumore. Una "rivoluzione tipografica" doveva realizzarsi con l'abolizione della punteggiatura e l'assunzione di una grafica capace di trasmettere immediatamente la diversa importanza delle parole. Apparvero anche manifesti tecnici di altre arti quali la pittura, la musica e l'architettura. Il Manifesto del teatro futurista sintetico (1915) suggeriva di sorprendere il pubblico con spettacoli brevissimi o addirittura inesistenti per provocarne la reazione anche violenta. Le posizioni del futurismo italiano in ambito politico trovarono espressione sulla rivista "Lacerba", furono meno originali e rimasero legate a forme di nazionalismo. Allo scoppio della prima guerra mondiale i futuristi si schierarono decisamente a favore dell'interventismo e parecchi di loro partirono volontari.

Propongo in questo post i punti del “manifesto futurista” di Marinetti da me ritenuti più significativi, sottolineando le frasi che meglio mettono in evidenza l’importanza che aveva il progresso per questo movimento.

Il manifesto futurista
Le Figaro - 20 febbraio 1909
1.     Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità.
2.     Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.
3.     La letteratura esaltò fino ad oggi l'immobilità pensosa, l'estasi ed il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l'insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.
4.     Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo... un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.
5.     Noi vogliamo inneggiare all'uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.
6.     Bisogna che il poeta si prodighi con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l'entusiastico fervore degli elementi primordiali.
7.     Non v'è più bellezza se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo.
8.     Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!... Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell'impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell'assoluto, poiché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente.
9.     Noi vogliamo glorificare la guerra - sola igiene del mondo - il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.
10.  Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica e utilitaria.
11.   Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri, incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole per i contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l'orizzonte, e le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta. 
È dall'Italia che noi lanciamo per il mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria col quale fondiamo oggi il futurismo perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d'archeologi, di ciceroni e d'antiquari. Già per troppo tempo l'Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri.

Filippo Tommaso Marinetti

mercoledì 29 maggio 2013

Quaderni di Serafino Gubbio Operatore

Questa settimana tratto dell’altro romanzo da me letto: Quaderni di Serafino Gubbio Operatore, opera del premio Nobel per la letteratura nel 1934 Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936).
Inizialmente pubblicato nel 1916 col titolo Si gira... e successivamente riveduto col nuovo titolo nel 1925,  affronta direttamente i temi della macchina e dell'età contemporanea.
Il romanzo narra la vicenda di Serafino, un cineoperatore della casa cinematografica Kosmograph che quotidianamente annota in un diario tutti gli avvenimenti che riguardano quelli che lavorano nel suo ambiente e soprattutto la storia di un'attrice russa, Varia Nestoroff. Inizialmente il protagonista viene ospitato in un ospizio di mendicità a Roma che il suo amico Simone Pau chiama albergo. In questo ospizio conosce un violinista che si è ridotto ad accompagnare un pianoforte automatico e che infine non suona neanche più ma beve solo. Serafino si sente totalmente alienato dal suo lavoro tant'è che poi afferma: "Finii d'esser Gubbio e diventai una mano". Nella scena finale del romanzo Serafino riprende meccanicamente con la sua cinepresa una scena terribile: Aldo Nuti sta girando una scena in cui deve uccidere una tigre; tuttavia, invece di rivolgere l'arma verso l'animale, egli uccide la Nestoroff. Rimane però ucciso a sua volta, sbranato dalla stessa tigre. Serafino, che sta filmando la scena, diviene muto per lo shock e rinuncia ad ogni forma di sentimento e di comunicazione.
Come per il precedente romanzo riporto i passi della vicenda che ho trovato più significativi.
Serafino Gubbio, le macchine e la modernità
I
(…)
13 Conosco anch'io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita che fragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così e così; questo e quest'altro da fare; correre qua, con l'orologio alla mano, per essere in tempo là. - No, caro, grazie: non posso! - Ah sì, davvero? Beato te! Debbo scappare... - Alle undici, la colazione. - Il giornale, la borsa, l'ufficio, la scuola... - Bel tempo, peccato! Ma gli affari... - Chi passa? Ah, un carro funebre... Un saluto, di corsa, a chi se n'è andato. - La bottega, la fabbrica, il tribunale...
Nessuno ha tempo o modo d'arrestarsi un momento a considerare, se quel che vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopra tutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella quale solamente potrebbe trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragore e tanta vertigine è gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimento, che non ci è più possibile raccoglierci un minuto a pensare. Con una mano ci teniamo la testa, con l'altra facciamo un gesto da ubriachi.
- Svaghiamoci!
(…)
36 Qua da noi non siamo ancora arrivati ad assistere allo spettacolo, che dicono frequente in America, di uomini che a mezzo d'una qualche faccenda, fra il tumulto della vita, traboccano giù, fulminati. Ma forse, Dio ajutando, ci arriveremo presto. So che tante cose si preparano. Ah, si lavora! E io - modestamente - sono uno degli impiegati a questi lavori per lo svago.
Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo io cui vivo e di cui vivo, non vuol mica dire operare.
Io non opero nulla.
Ecco qua. Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta. Uno o due apparatori, secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o su la piattaforma con una lunga pertica e un lapis turchino i limiti entro i quali gli attori debbono muoversi per tenere in fuoco la scena.
Questo si chiama segnare il campo.
(…)
II
81 Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la mia professionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, condannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella.
(…)
114 Che cos'è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora è passata.
C'è una molestia, però, che non passa. La sentite? Un calabrone che ronza sempre, cupo, fosco, brusco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzìo dei pali telegrafici? lo striscìo continuo della carrùcola lungo il filo dei tram elettrici? il fremito incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello del motore dell'automobile? quello dell'apparecchio cinematografico?
Il bàttito del cuore non s'avverte, non s'avverte il pulsar delle arterie. Guaj, se s'avvertisse! Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e dice che non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scomparire d'immagini; ma che c'è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua, stridendo precipitosamente.
Si spezzerà?
Ah, non bisogna fissarci l'udito. Darebbe una smania di punto in punto crescente, un'esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire.
In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramenìo vertiginoso, che investe e travolge, bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo per attimo, questo rapido passaggio d'aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzìo per ciascuno di noi non cesserà.

L’ “uomo del violino”

– Serafino, – disse, – ti presento un grande artista. Gli hanno appiccicato un nomignolo schifoso;
ma non importa: è un grande artista. Ammiralo: qua, col suo Dio sotto il braccio!
Potrebbe essere una scopa: è un violino.
Mi voltai a osservar l’effetto delle parole di Simone Pau sul viso dello sconosciuto. Impassibile. E
Simone Pau seguitò:
– Un violino, per davvero. E non lo lascia mai. Anche i custodi qua gli concedono di portarselo a
letto, a patto che non suoni di notte e non disturbi gli altri ricoverati. Ma non c’è pericolo. Càvalo fuori, amico mio, e mostralo a questo signore, che ti saprà compatire.
Quegli mi spiò prima con diffidenza; poi, a un nuovo invito di Simone Pau, trasse dalla custodia
il vecchio violino, un violino veramente prezioso, e lo mostrò, come un monco vergognoso può mostrare il suo moncherino.
Simone Pau riprese, rivolto a me:
– Vedi? Te lo mostra. Grande concessione, di cui devi ringraziarlo! Suo padre, molti anni or sono,
lo lasciò padrone a Perugia di una tipografia ricca di macchine e di caratteri e bene avviata. Di’ tu,
amico mio, che ne facesti, per consacrarti al culto del tuo Dio?
L’uomo rimase a guardare Simone Pau, come se non avesse compreso la domanda.
Simone Pau gliela chiarì:
– Che ne facesti, della tua tipografia?
Quegli allora scattò in un gesto di noncuranza sdegnosa.
– La trascurò, – disse, per spiegare quel gesto, Simone Pau. – La trascurò fino al punto di ridursi al lastrico. E allora, col suo violino sotto il braccio, se ne venne a Roma. Ora non suona più da un pezzo, perché crede di non poter più sonare, dopo quanto gli è accaduto. Ma fino a qualche tempo fa, sonava nelle osterie. Nelle osterie si beve; e lui prima sonava, poi beveva. Sonava divinamente; più divinamente sonava, e più beveva; così che spesso era costretto a mettere in pegno il suo Dio, il suo violino. E allora si presentava in qualche tipografia per trovar lavoro: metteva insieme a poco a poco quel
tanto che gli bisognava per spegnare il violino, e ritornava a sonare nelle osterie. Ma senti che cosa
gli capitò una volta, per cui… capisci? gli si è un po’ alterata la… la… non diciamo ragione, per carità, diciamo concezione della vita. Insacca, insacca, amico mio, il tuo strumento: so che ti fa male, se io lo dico, mentre tu hai il tuo violino scoperto.
L’uomo accennò più volte di sì, gravemente, col capo arruffato, e rinfoderò il violino.
– Gli capitò questo, – seguitò Simone Pau. – Si presenta in una grande officina tipografica, nella quale è proto uno che, da ragazzotto, lavorava nella sua tipografia a Perugia. «Non c’è posto; mi
dispiace», gli dice costui. E l’amico mio fa per andarsene, avvilito, quando si sente richiamare. «Aspetta», dice. «Se ti adatti, ci sarebbe da fare un servizio… Non sarebbe per te; ma, se tu hai bisogno…».
Il mio amico si stringe nelle spalle, e segue il proto. È introdotto in un reparto speciale, silenzioso;
e lì il proto gli mostra una macchina nuova: un pachiderma piatto, nero, basso; una bestiaccia mostruosa, che mangia piombo e caca libri. È una monotype perfezionata, senza complicazioni d’assi, di ruote, di pulegge, senza il ballo strepitoso della matrice. Ti dico una vera bestia, un pachiderma, che si rùguma quieto quieto il suo lungo nastro di carta traforata. «Fa tutto da sé» dice il proto al mio amico. «Tu non hai che a darle da mangiare di tanto in tanto i suoi pani di piombo, e starla a guardare». Il mio amico si sente cascare il fiato e le braccia. Ridursi a un tale ufficio, un uomo, un artista! Peggio d’un mozzo di stalla… Stare a guardia di quella bestiaccia nera, che fa tutto da sé, e che non vuol da lui altro servizio, che d’aver messo in bocca, di tanto in tanto, il suo cibo, quei pani di piombo! Ma questo è niente, Serafino! Avvilito, mortificato, oppresso di vergogna e avvelenato di bile, il mio amico dura una settimana in quella servitù indegna e, porgendo alla bestia quei pani di piombo, sogna la sua liberazione, il suo violino, la sua arte; giura e promette di non ritornare più a sonare nelle osterie, dov’è forte, veramente forte per lui la tentazione di bere, e vuol trovare altri luoghi più degni per l’esercizio della sua arte, per il culto della sua divinità. Sissignori! Appena spegnato il violino, legge negli avvisi d’un giornale, tra le offerte d’impiego, quella d’un cinematografo, in via tale, numero tale, che ha bisogno d’un violino e d’un clarinetto per la sua orchestrina esterna. Subito il mio amico accorre; si presenta, felice, esultante, col suo violino sotto il braccio. Ebbene: si trova davanti un’altra macchina, un pianoforte automatico, un cosiddetto piano-melodico. Gli dicono: «Tu col tuo violino devi accompagnare quello strumento lì!». Capisci! Un violino, nelle mani d’un uomo, accompagnare un rotolo di carta traforata introdotto nella pancia di quell’altra macchina lì! L’anima, che muove e guida le mani di quest’uomo, e che or s’abbandona nelle cavate dell’archetto, or freme nelle dita che premono le corde, costretta a seguire il registro di quello strumento automatico! Il mio amico diede in tali escandescenze, che dovettero accorrere le guardie, e fu tratto in arresto e condannato per oltraggio alla forza pubblica a quindici giorni di carcere.
Ne è uscito, come lo vedi.
Beve, e non suona più.

Il « silenzio di cosa » di Serafino Gubbio

Io mi salvo, io solo, nel mio silenzio, col mio silenzio, che m’ha reso così – come il tempo vuole – perfetto. Non vuole intenderlo il mio amico Simone Pau, che sempre più s’ostina ad annegarsi nel superfluo, inquilino perpetuo d’un ospizio di mendicità. Io ho già conquistato l’agiatezza con la retribuzione che la Casa m’ha dato per il servizio che le ho reso, e sarò ricco domani con le percentuali che mi sono state assegnate sui noli del film mostruoso. È vero che non saprò che farmi di questa ricchezza; ma non lo darò a vedere a nessuno; meno che a tutti, a Simone Pau che viene ogni giorno a scrollarmi, a ingiuriarmi per smuovermi da questo mio silenzio di cosa, ormai assoluto, che lo rende furente. Vorrebbe ch’io ne piangessi, ch’io almeno con gli occhi me ne mostrassi afflitto o adirato; che gli facessi capire per segni che sono con lui, che credo anch’io che la vita è là, in quel suo superfluo. Non  batto  ciglio; resto a guardarlo rigido, immobile, e lo faccio scappar via su le furie. Il povero Cavalena da un altro canto studia per me trattati di patologia nervosa, mi propone punture e scosse elettriche, mi sta attorno per persuadermi a un’operazione chirurgica sulle corde vocali; e la signorina Luisetta, pentita, addolorata per la mia sciagura, nella quale vuol sentire per forza un sapor d’eroismo, timidamente mi dà ora a vedere che avrebbe caro m’uscisse, se non più dalle labbra, almeno dal cuore un sì per lei.
No, grazie. Grazie a tutti. Ora basta. Voglio restare così. Il tempo è questo; la vita è questa; e nel senso che do alla mia professione, voglio seguitare così – solo, muto e impassibile – a far l’operatore.
La scena è pronta?
– Attenti, si gira...


mercoledì 22 maggio 2013

Brave New World


Arriviamo ora all’analisi dei testi letterari da me letti per approfondire il tema del progresso, ma anche per prendere spunti interessanti per una propria personale opinione riguardo questo tema.
Cominciamo la trattazione del romanzo in lingua inglese Brave new world” dello scrittore Aldous Leonard Huxley (Godalming, 26 luglio 1894 – Los Angeles, 22 novembre 1963).
Il romanzo descrive una società il cui motto è "Comunità, Identità, Stabilità". La nuova società è basata sui principi della produzione in serie, applicati inizialmente nelle industrie automobilistiche di Ford alla produzione del "Modello T". Per questo Ford è il Dio di questa nuova società.
La produzione in serie viene applicata anche alla riproduzione umana, resa completamente extrauterina.
Non esistono più vincoli familiari di alcun tipo ("ognuno appartiene a tutti")
Gli esseri umani in questa società sono divisi in caste.
Al tradizionale processo di educazione viene sostituito uno di condizionamento psico-fisico, che inizia sin dal concepimento.
Come "rimedio" per ogni eventuale infelicità, agli individui viene fornito un medicinale chiamato soma, in realtà una droga euforizzante e antidepressiva.
Sotto molti aspetti la società del Mondo Nuovo può essere considerata utopica e ideale: l'umanità è  finalmente libera da preoccupazioni, sana, tecnologicamente avanzata, priva di povertà e guerra,  permanentemente felice.
L'ironia tuttavia è che questa condizione ideale è ottenuta sacrificando le cose che generalmente  consideriamo importanti per l'essere umano: la famiglia, l'amore, la diversità culturale, l'arte, la  religione, la letteratura, la filosofia e la scienza. In questo senso la società del Mondo Nuovo è una "distopia", cioè un'utopia ironica o negativa.
 I cittadini sono felici, ma il "selvaggio" John percepisce questa felicità come artefatta e sterile.
John vive il suo confronto col Mondo Nuovo in maniera ambivalente; da un lato attratto da esso - e  attratto da una delle protagoniste, Lenina Crowne - dall'altro spaventato e orripilato dalle  consuetudini di esso, a lui e alla sua educazione completamente avulse.
In conclusione propongo una serie di citazioni tratte dal romanzo e ritenute da me la più significative. Ne riporto l’originale in forma inglese e la relativa traduzione:
I particolari portano alla virtù e alla felicità; mentre le generalità sono, dal punto di vista  intellettuale, dei mali inevitabili.
The details leading to virtue and happiness, while the generalities are, from the intellectual point of  view, necessary evils.
Questo è il segreto della felicità e della virtù: amare ciò che si deve amare.
This is the secret of happiness and virtue: love what you have to love.
Bisogna scegliere tra la felicità e ciò che una volta si chiamava la grande arte.
You must choose between happiness and what once was called art.
Noi non vogliamo cambiare. Ogni cambiamento è una minaccia per la stabilità.
We do not want to change. Every change is a threat to stability.
Questo non è stato un bene per la verità, d'accordo, ma è stato eccellente per la felicità.
This was not good for the truth, all right, but it was excellent for happiness.
Voi non sopportate né affrontate. Abolite semplicemente i colpi e le frecce. E' troppo semplice.
You really cannot stand nor addressed. You simply abolish "slings and arrows". It's too simple.